Proprietà e beni comuni

aprile 19, 2017
Questo post è tratto da “Diritto Privato. Una conversazione” - Il Mulino
Pietro Rescigno, Giorgio Resta, Andrea Zoppini.


Tra le parole chiave del diritto privato c'è naturalmente la proprietà. Alcuni degli sviluppi più importanti sono avvenuti sul terreno del diritto europeo. Da un lato la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha sensibilmente rafforzato il rango e le tutele del diritto di proprietà; dall’altro la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea ha cristallizzato tale processo elevando la proprietà ad autonomo diritto fondamentale.

La situazione appare oggi in rapido mutamento, anche a seguito delle prese di posizione della Corte costituzionale, che sin dal 2007 (con le sentenze n. 348 e 349), ha espressamente inserito la giurisprudenza della Corte di Strasburgo nel nostro sistema delle fonti.


Tale processo di rafforzamento del diritto di proprietà all’interno delle fonti europee, unitamente a una diffusa crisi della statualità, ha però determinato una sorta di «contromovimento», volto a estendere gli spazi di accesso garantito e generalizzato a beni essenziali per lo sviluppo della persona, e dunque ad attribuire una tutela più incisiva a ciò che Stefano Rodotà ha definito, diversi anni addietro, il «retroterra non proprietario». Mi riferisco, in particolare, all’elaborazione teorica in materia di beni comuni, che ha visto i giuristi italiani in una posizione di assoluta avanguardia su scala internazionale.

Una delle più importanti ricadute operative della categoria dei beni comuni consiste nell’ammettere forme di tutela diffusa del bene e dunque la possibilità per ciascun individuo di agire di fronte al giudice ordinario per la protezione dell’interesse alla conservazione o alla fruizione collettiva delle risorse in questione. Tuttavia mi sembra che non ci si limiti a questo nell’enunciare una categoria dei beni comuni, poiché ci si pone anche il problema della titolarità.

La definizione della collettività di riferimento legittimata alla fruizione e alla tutela diffusa ha costituito una delle questioni maggiormente dibattute, non potendo trovare una risposta definitiva sino a che la platea dei beni coinvolti non sia preventivamente circoscritta e resa meno eterogenea. 

Un tentativo interessante a questo proposito mi parrebbe quello compiuto da Cerulli Irelli, che ha ricostruito ambiti di legittimazione differenti in funzione della concreta tipologia dei beni sottostanti: ha ad esempio suggerito forme di legittimazione particolarmente allargata per i beni culturali e paesaggistici inclusi negli elenchi dell’UNESCO, ipotizzando quindi una precisa convergenza tra la categoria civilistica dei beni comuni e quella internazionalistica dei patrimoni comuni dell’umanità.

Credo che questa possa essere una via per arrivare al riconoscimento di queste forme diffuse di titolarità della posizione di rivendicazione e quindi della tutela giurisdizionale rispetto a certi beni di interesse collettivo. E tuttavia rifarsi all’umanità come centro di imputazione di situazioni soggettive, non mi pare che dia una risposta circa la legittimazione in concreto di questa o di quella porzione dell’umanità interessata alla conservazione, gestione, godimento di questi beni.

Un altro tratto distintivo della categoria dei beni comuni è rappresentato dal paradigma dell’inalienabilità e della sottrazione ai regimi circolatori a carattere mercantile. In ciò, come nell’idea della tutela diffusa, si riflette l’idea di fondo per cui i beni comuni debbono ritenersi strutturalmente inclusivi, nel senso che il loro godimento vada garantito a tutti in quanto strumentale all’esercizio dei diritti fondamentali. Che si aderisca a tale costruzione o la si ritenga tecnicamente impercorribile, credo sia innegabile che ci troviamo in presenza di un passaggio teorico significativo, poiché ripropone un forte nesso tra proprietà, uguaglianza e solidarietà.