Verso una Public Corporate Governance

gennaio 30, 2017
La nozione di ‘società pubblica’ non è univoca. Il tema è conteso da due impostazioni. Un’impostazione privatistica – per la quale propendo – vede nella società (prima di tutto) uno strumento dell’iniziativa economica dei privati, cui anche la mano pubblica si assoggetta, abdicando così alle sue prerogative pubblicistiche. La lettura alternativa si orienta, invece, alla prevalenza della sostanza (pubblicistica) sulla forma (privatistica): non si dovrebbe consentire alla pubblica amministrazione di fare, attraverso una società partecipata, ciò che non può fare direttamente.
Questa polarizzazione delle letture non aiuta la comprensione della partecipazione del soggetto pubblico alla società azionaria, che storicamente ha costituito una faglia tra diritto privato e diritto pubblico, un terreno di convivenza necessaria e naturale tra interessi individuali e interessi generali.
Non è quindi possibile identificare un interesse sociale: intorno all’impresa gravitano e trovano composizione una pluralità di interessi ‘sociali’.


Perché un'impostazione privatistica

Vedere nella società un regime oggettivo della disciplina d’impresa permette di negare qualsiasi implicazione essenzialistica, che possa autorizzare l’interprete ad affermare di trovarsi di fronte ad un ‘soggetto’ diverso.
Non mancano tentativi di questo tipo, volti ad affermare che la società pubblica costituisca un diverso tipo di società, magari a sua volta distinguibile dall’"ente pubblico in forma societaria”.
In che modo possiamo allora meglio comprendere il fenomeno societario, in presenza del controllo pubblico, muovendo dalle regole dell’impresa?
se e quando la presenza del socio pubblico può giustificare una deviazione dalle regole di diritto comune?
Se le norme del diritto societario costituiscono regole oggettive del mercato, tali regole non possono contraddire la struttura normativa inderogabile dell’attività d’impresa come disegnata dal diritto dell’Unione. Una regola generale può desumersi dal principio di parità di trattamento dell’impresa.
Da questa regola si trae il divieto di disciplinare diversamente l’attività imprenditoriale in ragione della proprietà pubblica o privata e, altresì, il principio di proporzionalità dei poteri che il socio pubblico può esercitare coerentemente alla sua partecipazione. Quanto appena detto vale, naturalmente, nella misura in cui non constino ragioni di interesse generale che giustifichino una discriminazione.

La giurisprudenza comunitaria

La Corte di Giustizia ha chiarito che la semplice partecipazione della pubblica amministrazione in una società non è sintomatica dell’esistenza di un preminente interesse generale tale da giustificare status privilegiati per il socio pubblico, né sono invocabili motivi puramente economici, quali esigenze di risparmio per le casse pubbliche.
Peraltro, sempre la giurisprudenza pratica comunitaria ha chiarito che i diritti speciali, anche laddove giustificati da interessi generali, non possono comunque tradursi in misure che garantiscano posizioni di vantaggio sproporzionato alla quota di azioni posseduta in una società per azioni.
In termini generali, quindi, le società a partecipazione pubblica devono essere sottoposte alle medesime regole e alla medesima disciplina societaria.
La competizione nel mercato e la soggezione della società partecipata alle norme comunitarie in materia di concorrenza va correlata, inoltre, alla disciplina in tema di trasparenza delle relazioni finanziarie tra Stato e imprese pubbliche.
Al fine di valutare se i trasferimenti monetari erogati dallo Stato siano giustificati dalla logica proprietaria o, al contrario, costituiscano illegittime sovvenzioni, incompatibili con le regole di mercato, la normativa comunitaria impone l’obbligo di trasparenza per una serie di operazioni, tra cui il ripianamento di perdite d’esercizio, i conferimenti in capitale sociale o in dotazione, i prestiti a fondo perduto, la rinuncia di una remunerazione normale delle risorse pubbliche impiegate.
Il diritto comunitario non ammette deroghe al rispetto delle regole concorrenziali in presenza di una società pubblica ed in omaggio al principio di parità di trattamento tra soggetti pubblici e privati vieta agli Stati membri di adottare o mantenere verso le imprese pubbliche o partecipate misure contrarie alle norme dei trattati.
Nella disciplina degli aiuti di stato, gli apporti di mezzi, siano essi nella forma della sottoscrizione degli aumenti di capitale, sia nella forma dei prestiti dei soci sono ammissibili e leciti solo qualora rispondano al criterio dell’investitore razionale che adotta criteri di mercato
Parimenti la potestà legislativa non è autorizzata ad attribuire prerogative al socio pubblico che non siano possibili per il diritto comune, tema più volte all’attenzione della Corte europea nelle pronunce in materia di golden share.
Resta pertanto il fatto che privilegi a vantaggio del socio pubblico possono sussistere quando siano giustificate da ragioni di preminente interesse generale e rispettino il principio di proporzionalità rispetto agli scopi prefissati.

Socio pubblico e conflitti d'interesse

Un'altra questione: le regole speciali adottate per le società pubbliche sono capaci di gestire e prevenire il tipo di conflitti di interesse che la presenza di un socio pubblico genera?
Il socio pubblico è portatore e generatore di peculiari conflitti di interesse. Ciò giustifica l’interrogativo se sia opportuno definire un autonomo statuto della società pubblica, che evidenzi gli specifici elementi di peculiarità e sia in grado d’offrire un’adeguata risposta in termini di disciplina.
Il rischio d’estrazione di benefici privati è potenzialmente molto elevato nelle società nelle quali il controllo deriva da una coalizione di soci, mentre si manifesta in maniera tutt’affatto diverso nelle società controllate dal socio pubblico.
Il socio pubblico, infatti, non è di regola incentivato ad appropriarsi direttamente e come tale di utilità economiche attraverso operazioni con parti correlate.
Si registrano, talora, operazioni dirette a estrarre benefici privati, ma anche in questo caso i benefici non s’indirizzano a favore del socio pubblico, quanto piuttosto ai referenti politici che hanno selezionato il management.
Ne consegue, quindi che questa tecnica preventiva di profilassi amministrativa e gestionale non è (da sola) in grado di intercettare i conflitti di interesse che la presenza del socio pubblico genera.
Il socio pubblico è sovente un socio molto ‘distante’ dalla gestione e dalle scelte degli amministratori. E, normalmente, non dispone di procedure di analisi preventiva della gestione sociale.Questa situazione lascia gli amministratori solitari nell’esercizio dei propri poteri ed essi, spesso, adottano strategie imprenditoriali e concorrenziali particolarmente aggressive, in quanto non sempre orientate a massimizzare l’utile o a remunerare l’investimento del socio.

Socio pubblico e controllo della gestione

Il problema delle società pubbliche consiste allora nel controllo della discrezionalità gestoria. Ci si può chiedere, allora, se le norme oggi adottate siano coerenti con questo obiettivo. Il legislatore non sempre è consapevole di questo aspetto e spesso, seppure inconsapevolmente, realizza il risultato opposto. Si pensi alle regole del d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175 che dispongono che si debba: privilegiare l’opzione per l’amministratore unico (art. 11, comma 2); favorire l’immedesimazione tra presidente e amministratore delegato (art. 11, comma 9); fissare a cinque il numero massimo di componenti del consiglio di amministrazione (art. 11, comma 3).
La scelta del modello societario si lascia apprezzare in positivo perché essa importa un collaudato modello di amministrazione e controllo della società e dell’impresa.
Ma se l’obiettivo è solo quello di realizzare il contenimento dei costi di funzionamento degli organi, il legislatore avrebbe dovuto adottare il modello di amministrazione monistico (la cui composizione minima è costituita da tre amministratori) e non il sistema tradizionale che sottende un amministratore e tre sindaci.
Discutibile è anche la scelta di sovrapporre nella stessa persona il ruolo di presidente e l’amministratore delegato, posto che il presidente assolve una fondamentale funzione di garanzia del corretto flusso informativo a favore del consiglio d’amministrazione, il che presuppone normalmente la separazione dall’attività gestoria.
Ancora, la scelta di comporre il consiglio di cinque amministratori – nelle società di maggiori dimensioni – impedisce sostanzialmente la costituzione di comitati istruttori – in primo luogo quello di controllo e rischi –; ciò che, di fatto, osta all’applicazione delle migliori prassi societarie in materia di governance.
Insomma, se l’obiettivo è il contenimento dei costi di funzionamento degli organi, meglio sarebbe stato fissare un limite alla remunerazione dei medesimi, piuttosto che rendere gli amministratori ancora più autoreferenziali e la gestione ancor meno controllabile.
Inoltre, una riflessione più matura avrebbe dovuto concentrare l’attenzione sulla separazione tra la funzione gestoria e quella di audit aziendale (imponendo che essa non faccia capo ad un amministratore esecutivo) e avrebbe dovuto applicare la disciplina del preposto alla redazione dei documenti contabili anche nelle società pubbliche non quotate.

Conclusioni

L’analisi dei problemi qui posti si riflettono in termini di disciplina dell’impresa e poi del mercato e contribuiscono a definire le linee di quella che ho indicato come Public Corporate Governance.
Si tratta d’un capitolo del diritto societario, quello che analizza le regole di gestione societarie e imprenditoriali in presenza di un socio pubblico.